Palloni di carta – 23 febbraio 2011

“Il campione” è la storia di un uomo e nulla più. Da capo a piedi, dal primo getto d’inchiostro all’ultima parola scorsa nella mente, null’altro che un’umile biografia. Un romanzo nel pieno stile inglese dei Giovani Arrabbiati (scrittori britannici realisti) scritto da David Storey nel 1960 ed oggi riedito dalla 66th and 2nd. Uno che ha piena coscienza di come dare alla luce una narrazione lunga 300 pagine senza scadere nell’ovvietà, senza annoiare, senza mai correre il rischio di lasciar riposare l’attenzione di chi legge. Un romanzo che, stando alla carta d’identità, dovrebbe risuonare matusallemicamente stonato, fuori contesto, fuori tempo massimo, fuori tutto. E che, al contrario, si fionda sulla realtà contemporanea come un’aquila sulla preda in fuga. Con la sua teoria di riscatto e la sua pratica di intima proletarietà, con il suo carico di rivalsa generazionale e sociale, con il suo urlo di libertà, con i suoi eccessi semantici e con le sue condanne al perbenismo, “Il campione” detta un punto di vista nuovo, segna una svolta.

Protagonista è Arthur Machin, un ragazzo che nasce ragazzo e che, nel tempo e nello spazio racchiuso fra le copertine del testo, prova a maturare, a diventare uomo attraverso il gioco vicendevole della vita e della morte, attraverso la vita in fabbrica e la valvola di sfogo (ed arricchimento) del rugby. Machin è tronfio, smargiasso, pieno di sé. È uno sbruffone assunto a cottimo presso la nascente società dei consumi, amante degli altri soltanto attraverso lo specchio di sé stesso. Con lui non si empatizza. Lo si odia per lunghi tratti della storia. In lui sembra di scorgere il pródromos degli eroi di plastica contemporanei, circondati da compagne in silicone. E Storey non fa nulla per farlo amare. Sporca i suoi già marcati difetti, acuisce i limiti e le mancanze, tratteggia un animale solitario. Una sorta di cavaliere nero o sceriffo del west senza morale né giustizia se non quella del proprio ego.

Sarà un tiepido ma complicato amore con la sua padrona di casa a scuoterlo dal torpore emotivo, a dirigere i passi esperienziali verso mete nuove, schiudendo un nuovo orizzonte di fronte alla rotta monocorde della sua vita. Una giornata di sole ma anche di tanta pioggia che condurrà ad un veloce tramonto. Già perché di fronte a Arthur e Val si staglieranno boria, diffidenza, malattia, morte. Due frugoletti, figli del matrimonio concluso di lei (vedova di un operaio), vagamente alienati e dai tratti inquietanti, come un invalicabile ostacolo della memoria che non si spezza mai, della natura che impera, domina, trionfa.

Sospeso fra il più classico dei Dickens e l’Orwell de “La strada di Wiegan Pier”, Storey monta un copione lercio, sporco, duro, ricco di pathos. Nello squallore inquinato dei bassi inglesi, case come “conigliere inchiodate insieme da gran puntelli di comignoli”, le pagine emanano tanfo di grasso, smog, fumo, alcol, sudore. Un olezzo si incolla indosso anche senza volerlo, coinvolgendo ed abituando.

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